venerdì , 4 Ottobre 2024

EMPTY CAGE from Jacopo Jenna on Vimeo.

John Cage in Italia. Empty Words al Teatro Lirico, Milano 1977

Empty Words al Teatro Lirico
(Milano, 1977)

La sera del 2 dicembre 1977, John Cage tenne un concerto intitolato Empty Words (Parte III) presso il Teatro Lirico di Milano. Il compositore americano fu invitato dall’emittente radio Canale 96, con la partecipazione di Gianni Sassi di Cramps Records che aveva pubblicato due album di musiche di Cage, in quanto esponente di avanguardia della scena musicale internazionale.

Conferenza stampa all'Out Off di MilanoLa conferenza stampa di John Cage all’Out Off di Milano prima del concerto Empty Words in cui fu anche presentata la raccolta di conversazioni tra Cage e Daniel Charles “Per gli Uccelli”, Multhipla (foto tratta dal Diario dell’Out Off)

Empty Words è un lavoro per voce basato sul Diario (Journal) di Henry David Thoreau (il cui testo si può trovare nella raccolta di scritti di Cage Empty Words: writings ’73-’78) la cui durata complessiva è di circa dieci ore, ma di cui a Milano fu eseguita solo la terza parte. In pratica Cage aveva spogliato, attraverso l’uso dell’I-Ching, il testo di Thoreau prima di alcune frasi, poi di alcune parole, infine di alcune sillabe, il tutto intervallato da silenzi, ottenendo così un testo sempre più rarefatto. Un universo di semplici suoni. Contemporaneamente alla lettura da parte di Cage furono proiettate alcune diapositive che mostravano i disegni, apparentemente senza senso, che lo stesso Thoreau aveva disseminato nel suo testo.

Il pubblico era formato in gran parte da giovani, molti dei quali però non erano preparati alla musica di Cage, forse attratti dalle descrizioni e dalle reazioni che le composizioni di Cage avevano provocato nell’ambito della musica classica, sconquassata dalle sue posizioni innovative.

John Cage disturbato durante il concertoAlcuni spettatori disturbano la performance di John Cage salendo sul palco (foto di Maurizio Buscarino ©)

Fu così che l’evento sonoro programmato da Cage si trasformò ben presto in un happening, per usare un termine caro a Cage, dalle conseguenze imprevedibili.
Il pubblico, in un primo momento curioso, dopo pochi minuti si rese conto che il concerto al quale stava assistendo non era niente di simile a quanto si potesse immaginare.
Alcuni spettatori iniziarono pertanto a urlare, protestare fino addirittura a salire sul palco a disturbare la performance di Cage stesso, che se ne stava seduto davanti ad una piccola scrivania illuminata da una lampadina lì appoggiata a leggere il suo testo.

Nonostante la baraonda e il comportamento a dir poco incivile mostrato da un parte del pubblico, Cage non si scompose e pur mostrando fastidio verso certi atteggiamenti – gli sfilarono temporaneamente persino gli occhiali – continuò nella sua esibizione fino alla fine prevista quando, inaspettatamente considerando com’era iniziata, il pubblico sancì la chiusura del concerto con un boato e un fragoroso applauso. Tutti concordarono che Cage avesse vinto e che il pubblico avesse tributato il giusto omaggio al compositore. Nella rassegna stampa più in basso nella pagina, si può tuttavia constatare come il concerto di Cage abbia scatenato anche fuori dal palco diverse reazioni e impressioni.

Copertina di Empty Words, Cramps RecordsLa copertina dell’album Empty Words (Part III) di Cramps Records

Di questa particolare esecuzione di Empty Words esiste la registrazione edita da Cramps Records in cui si possono udire i fragorosi commenti da parte del pubblico sullo sfondo delle sillabe pronunciate da Cage. Interessante nonché utile, è la presenza del testo letto da Cage nel libretto che accompagna l’album doppio.

Per quanto riguarda i materiali video invece, il giornalista Renato Marengo realizzò un servizio per la RAI in cui raccolse le impressioni del pubblico prima del concerto mentre entrava nel teatro. Nello stesso filmato sono visibili alcuni momenti del concerto stesso, caos e finale a sorpresa compresi (video visibile qui sotto). Qualche giorno dopo inoltre, Roberto Leydi ospitò negli studi televisivi della RAI Cage, accompagnato da Juan Hidalgo e Walter Marchetti, che lo avevano assistito in quei giorni, per raccogliere le loro opinioni su quanto era accaduto.

Infine nella sezione interviste potete trovare la lunga intervista che uno spettatore del concerto, Maurizio Comandini, fece a Cage subito dopo la sua performance al Teatro Lirico. Tale intervista è stata pubblicata nel 2007 sul sito All About Jazz Italia.

Rassegna stampa Empty Words, 1977

(si ringrazia Cramps Records per le scansioni degli articoli originali da cui queste trascrizioni sono state tratte)

Unico concerto europeo di John Cage a Milano

(di D.S., Il Messaggero, martedì, 29 novembre 1977)
Venerdì 2 dicembre al Teatro Lirico di Milano concerto straordinario di John Cage, il maestro dei moderni compositori di musica elettronica. L’eccezionalità dell’avvenimento è data dalla presentazione in prima europea di Branches, dall’unicità del concerto che non verrà ripetuto in nessun’altra città d’Europa e dall’esecuzione personale dell’autore, avvenimento pressoché unico negli ultimi anni.

L’organizzazione del concerto è curata da Radio Canale 96 con la collabroazione del Consorzio Comunicazione Sonora ed è tesa a favorire un’affluenza di pubblico giovane.

La conferenza stampa che precederà il concerto incentrerà il suo interesse nella presentazione del disco Cheap Imitation e del libro Per gli uccelli. Cheap Imitation sarà interamente eseguito al piano da Cage e sarà certamente il miglior documento del lavoro del compositore americano, appositamente approntato per la riproduzione fonografica. Per gli uccelli, il libro tradotto in italiano dal musicologo Walter Marchetti, raccoglie numerose conversazioni intercorse negli anni tra il musicologo Daniel Charles, che ha curato la pubblicazione, e John Cage.

Del compositore si ricorda l’ultima apparizione italiana avvenuta al Teatro delle Arti di Roma cinque anni fa, dove Cage si impose ancora una volta con i suoi happening fuori il teatro, prima che iniziasse lo spettacolo in sala, sorprendendo l’esterrefatto pubblico. Con il prossimo concerto al Lirico assisteremo certamente alle nuove follie del sessantaciquenne innovatore di Los Angeles.

John Cage anti-gabbie, parole vuote al Lirico

(di Enzo Beacco, La Repubblica, venerdì, 2 dicembre 1977)
Profeta della musica come negazione, come gesto anarchico e casuale, John Cage, sessantacinquenne americano, segue la dieta macrobiotica. Perché?
Avevo seri disturbi fisici, otto mesi fa Yoko Ono mi ha introdotto alla macrobiotica. Ora sto benissimo.

C’è relazione fra la dieta e la sua musica?
Ho proprio quest’impressione.

Ha problemi d’invenzione musicale?
Posso sempre trovarli. Comunque ora mi occupo di violino, lavoro molto, collaboro con un musicista eccezionale, Zufowski.

Come mai si trova in Italia?
Sto preparando un progetto per il Dams di Bologna. Alla ricerca del silenzio perduto. Introdurrò il concetto di treno preparato: tre convogli andranno in direzioni diverse, senza orari o direzioni precise, porteranno gente con sé, nasceranno suoni, sarà la mia musica.

Tra poco uscirà in Italia un suo libro. S’intitola Per gli Uccelli. Cosa significa?
Mi chiamo Cage (gabbia), ma sono per gli uccelli, per la libertà, non per le gabbie. Il libro riporta una serie di conversazioni con Daniel Charles, in linguaggio molto semplice e piano. Può servire per capire le mie esperienze di musica e di pensiero.

Come funziona il concerto di stasera al Teatro Lirico?
S’intitola Parole Vuote. Nel lavoro completo che dura circa dodici ore ed è articolato in quattro parti, si passa gradualmente dal linguaggio alla musica. Qui ascolteremo solo la terza parte (due ore e mezzo), che è una delle intermedie, più rivolta alla musica che al linguaggio. Servono da testo sillabe tratte dal diario di H.D. Thoreau.

Ogni suono è musica

(di Paolo Petazzi, l’Unità, venerdì, 2 dicembre 1977)
Dopo qualche anno di assenza Cage è in Italia per iniziativa del Consorzio di comunicazione sonora (che riunisce diverse case discografiche una delle quali, la Cramps Records, pubblica in questi giorni un disco Cheap Imitation, curato dallo stesso Cage). Sono passati quasi vent’anni da quel 1958 in cui Cage – allievo di Schoenberg – fu invitato a Darmstadt e divenne notissimo in Europa, assumendo agli occhi delle avanguardie musicali di allora quasi la funzione di un catalizzatore di crisi, dubbi, contraddizioni. Quando Bruno Maderna ebbe ad affermare che non possiamo non dirci cageani non intendeva, credo, parlare di un rapporto di derivazione in senso stretto, ma di un’azione di stimolo che come presenza Cage esercitò, certo non solo in campo musicale. Perché fu l’atteggiamento concettuale di Cage a determinare molteplici reazioni e riflessioni: furono la negazione dell’opera d’arte come prodotto finito di cui l’artista si assume la responsabilità (come insomma viene intesa dalla tradizione occidentale), il suo richiamarsi al pensiero orientale, in particolare allo Zen, il rifiuto della dialettica, la teorizzata necessità dell’indeterminazione, perché musica è ogni suono e non c’è bisogno di organizzarla secondo regole precise. La violenza delle polemiche suscitate fa un singolare (ma non sorprendente) contrasto con la pacata dolcezza con cui il personaggio si presenta, con l’estrema affabilità e l’enigmatico sorriso che caratterizzano il suo modo di essere: anche nel nostro breve incontro.

Vien voglia di chiedergli cosa pensi degli influssi da lui esercitati, e che idee abbia sulla musica delle nuove generazioni in Europa. Ma, come in altre occasioni analoghe, Cage respinge con cortese fermezza la domanda:
Dovete capire che non sono interessato agli influssi… È sufficiente occuparsi di sé, del proprio lavoro…

Di questo appunto si era cominciato a parlare dall’inizio del colloquio, quando Cage, di ritorno da Bologna, si è messo a raccontare del suo progetto per il lavoro che il Teatro Comunale gli ha commissionato per la prossima estate. Ci soffermiamo poi su Empty Words (Parole vuote), il lavoro che Cage stesso presenta stasera al Teatro Lirico in prima europea. Sul foglio che sarà distribuito in sala si legge: Un miscuglio di sillabe e lettere ottenute sottoponendo il Journal (Diario) di H.D. Thoreau a un certo numero di cambiamenti casuali ottenuti per mezzo dell’I-Ching. Le diapositive mostrano disegni di Thoreau… La lettura durerà due ore e mezzo. Il pubblico intervenuto è libero di lasciare la sala e di rientrarvi.

Chiedo se Empty Words, iniziato nel 1973 e finito nel 1974, o 1975, sia da intendersi come un omaggio a Thoreau; Cage risponde di sì, e tiene a sottolineare le affinità tra il pensiero politico di Thoreau e il proprio credo anarchico-libertario:
Perché Thoreau era un oppositore del governo, diceva che la miglior fomra di governa è nessun governo, e che quella sarà la forma di governo che avremo quando saremo pronti ad essa… Ma naturalmente siamo già pronti (risata); le sole persone che non sono pronte sono quelle al governo, non crede?

Ritornando al discorso su Empty Words Cage aggiunge:
Thoreau diceva che ascoltando una frase sentiva dei piedi marciare; un mio amico, Norman Brown, diceva che la sintassi, o il modo in cui una frase è costruita, è la sistemazione (arrangement) dell’esercito; e a me piacerebbe demilitarizzare il linguaggio. Empty Words fa questo, non c’è alcun senso, non si dice nulla, e invece si hanno suoni che provengono da parole, ma che non significano nulla. È il tipo di linguaggio che la gente usa quando ama, non quando cerca di sopraffare. Quando si amano dicono nonsense, quando si combattono dicono frasi.

Chiedo a Cage come vede il rapporto tra Empty Words e certi precedenti affini dei futuristi o di Dada. Risponde:
C’è un grande legame… (risposta incompleta, segue la risposta a un’altra domanda) C’è un grande legame e c’è una storia meravigliosa, nel nostro secolo, di questo tipo di lavoro. Penso che ci siano molti modi di farlo e io uso semplicemente le mie energie per continuare questo lavoro e, se posso, per gettarvi una qualche luce. Non vorrei farne uso, perché di nuovo mi suggerisce l’idea dell’esercito. Nella mia opera si noterà che non ci sono ripetizioni, e ciascuno si deve scoprire il proprio sentiero perché il sentiero non è tracciato. È come se si fosse in una foresta; ma la foresta non ha sentieri, così che ci si deve trovare la strada.

Chiedo come si aspetta che il pubblico reagisca di fronte a quella transizione dal linguaggio alla musica che è, secondo la definizione di Cage, Empty Words:
Vedremo cosa accade. Spero che la gente non sia troppo depressa o infelice, e che troverà qualche modo per essere interessata. Se uno effettivamente ascolta è interessante, ma talvolta la gente non ascolta, talvolta sono pieni di preconcetti su ciò che sarebbe potuto accadere… Durerà molto a lungo, e perciò ho messo sul programma che la gente può uscire e tornare e, se vuole, uscire e non tornare. E ci saranno dei disegni di Thoreau, così c’è qualcosa da vedere e qualcosa da ascoltare.

Faccio notare che spesso la gente non ascolta perché non si aspetta di trovarsi di fronte a eventi sonori privi di senso e di organizzazione; e chiedo se vi è in Empty Words una qualche organizzazione:
C’è una organizzazione fatta attraverso operazioni casuali (n.d.r. come in tanti altri pezzi di Cage è stato usato, lo abbiamo già detto, l’I-Ching); è una organizzazione che somiglia molto a ciò che chiamavamo la foresta, più che all’esercito. Somiglia più alla complessità della foresta che all’organizzazione della mente umana.

Il discorso torna su Thoreau:
Penso che fosse un artista straordinario… quando si guardano i disegni si vedono i rapporti con l’arte moderna e orientale. Se si lasciano I disegni all’interno del Journal sembrano voler dire qualcosa. Penso che il modo in cui ci annoiamo e ci rendiamo infelici durante la vita nasca dal pensare che le cose significhino alcunché. Se vediamo che non necessariamente significano qualcosa e possiamo farne esperienza senza capirle, allora improvvisamente il mondo cambia e ne godiamo. È così semplice, eppure c’è così poca gente che sa come farlo…
E insiste poi sulla molteplicità, sul fatto che viviamo in un mondo complicato: penso che non dovremmo preocuparcene, andarvi come nuotando.

Accenna a diversi aspetti delle sue opere recenti, dai Quartetti per un’orchestra di 93 strumenti (ridotta di volta in volta a organici cameristici), a Cheap Imitation, un pezzo ricavato dal Socrate di Satie (il titolo significa ‘imitazione a poco prezzo’: imitazione, appunto, del Socrate). E Cage nota infine:
Molti dei miei lavori recenti hanno a che fare con opere di qualcun altro, ad esempio Satie, Thoreau, e più recentemente il Finnegans Wake di Joyce. In tutto questo tipo di lavoro suggerisco che invece di stare a distanza dalle opere di artisti che amiamo possiamo far qualcosa con esse.

La vita è suono

(intervista a John Cage di Gianluigi Degli Esposti, Il Resto del Carlino, sabato, 3 dicembre 1977)
John Cage, lei è nato nel 1912. Nel 1937 pubblicò il primo scritto in cui è usato il termine musica sperimentale. Il titolo era significativo: Il futuro della musica: credo. Si può dire che di qui nascono le avanguardie musicali dell’immediato ieri e di oggi: musica su nastro, musica elettronica, musica grafica, aleatoria, happenings musicali gestuali teatrali. Gli uomini delle avanguardie sono tutti molto più giovani di lei. Come spiega questo anticipo da parte sua?
Il fatto dipende da mio padre. Mio padre era un inventore, e io fin da bambino ho seguito le sue affascinanti ricerche. Mio padre inventò un sottomarino con una speciale propulsione a gas. Quando venne la prima guerra mondiale fu necessario inventare un secondo apparecchio, che eliminasse le bollicine che rendevano rintracciabile il sottomarino. Già che c’era, mio padre inventò uno strumento utile per individuare i sottomarini tedeschi, un antenato del radar.

Ma lei è ingegnere oltre che musicista?
No, ho soltato succhiato da mio padre questa passione per la tecnica. Io ho sempre desiderato essere artista, sono stato a lungo incerto tra la musica e la pittura.

Americano dalla testa ai piedi, forse il più geniale musicista vivente, è un uomo di straordinario e immediato fascino. Non si sa come faccia; infatti è normalmente silenzioso; ma sempre gentilissmo, disponibile, sempre allegro e supremamente ironico. E attentissimo a tutto ciò che lo circonda.

Lei è considerato il maggior compositore statunitense vivente (gli astanti sottolineano festosi, lui rimane silenzioso e immobile come se la cosa non lo riguardasse). Lei ha due padri musicali di prima grandezza: Varèse e Ives. Quali dei due predilige?
Varèse quando ascolto Varèse e Ives quando ascolto Ives. Ma tra i due c’è una grande differenza di significato. Ives è tutto americano, assolutamente, completamente. Varèse è un europeo che ha scoperto l’America e da cui l’America ha scoperto tanta Europa.

Ha conosciuto Pollock? È suo coetaneo, e in certo modo il suo equivalente in pittura.
Ho conosciuto Pollock, ma non siamo stati grandi amici. I miei grandi amici tra i pittori sono Rauschemberg, Morris Graves, Jasper Johns.

Anche questa circostanza va notata; sono uomini che hanno in media quindici anni meno di lui.
Però sono amico anche di Marc Tobey e ho un grande amore per Marcel Duchamp.

Duchamp: figura ormai di favola, che ha stampato di sé Europa e America, e vendicato Parigi della perdita dell’egemonia culturale.

È venuto molte volte in Italia?
Ci sono venuto da ragazzo, Napoli, Capri come d’uso; poi ho soggiornato a lungo a Milano, per lavorare con Luciano Berio e col tecnico Marino Zuccheri all’Istituto di Fonologia, circa venti anni fa. Oggi realizzo una manifestazione musicale a Milano e la prossima estate sarò a Bologna.

In Italia, vent’anni fa, lei è stato anche un personaggio televisivo.
Sì, Luciano Berio e la televisione mi convinsero a partecipare a Lascia o raddoppia di Mike Bongiorno.

In che qualità?
Come esperto di funghi. Io amo straordinariamente i funghi, li cerco, li studio, li conosco. Mi feci mandare da casa i miei libri sui funghi, studiai con cura e vinsi il premio. Cinque milioni mi pare.

Ma lei presentò anche sue musiche a Lascia o Raddoppia?
Sì, due brani: il primo intitolato Promenade all’acqua (Water Walk), usai anche un paiolo per ottenere determinati effetti sonori; e Canti di Venezia (Sounds of Venice), che preparai su canti popolari. Si poteva pensare a una stravaganza, invece io facevo le cose seriamente, i due brani sono custoditi presso il mio editore.

Quest’anno la stagione dei funghi è stata pessima.
Sì, quasi dappertutto; e io sono stato molto sfortunato; spostandomi come faccio, arrivavo nei luoghi quando la stagione dei funghi era appena finita.

Dunque lei questa sera (il 2 dicembre in realtà) dà un concerto, se così si può chiamare, a Milano. Di che cosa si tratta?
Risponde per Cage il musicista d’avanguardia spagnolo Hidalgo (nato nel ’27) che accompagna il maestro: Si tratta di una manifestazione complessa della durata di più di due ore. Cage recita dei testi, secondo ritmi musicali, spezzando le parole, indugiando su particolari consonanti: di fronte ha uno schermo sul quale appaiono figurazioni di Henry Thoreau, anche esse strutturate e ritmate a seconda dell’intenzione inventiva del compositore. Il pubblico non è costretto a starsene fermo per due ore e mezzo: può alzarsi, andarsene, oppure tornare dopo aver riposato e fumato una sigaretta.

E per Bologna, la prossima estate?
Cage sorride molto soddisfatto. L’idea di Tito Gotti, il responsabile fantasiossimo delle ormai tradizionali Feste Musicali, è la seguente: musica in treno e treno che porta la musica a città e paesi. Il treno potrà essere formato da due o tre furgoni, postali o bagagliai, nei quali si possono collocare vari esecutori, con possibilità al pubblico di circolare in mezzo a essi; e inoltre di vetture passeggeri, del tipo a porte centrali, divise in due ampi saloni, oltre ai passeggeri seduti, possono trovare temporaneamente posto esecutori musicali. È previsto nel treno un impianto elettroacustico che renda possibile ogni tipo di riporti o di diffusione, di mecolanza, di dosaggio, come la produzione diretta di suoni elettronici, o la messa in circuito di nastri magnetici. Nelle stazioni di sosta raccoglieremo gli abitanti del luogo, e chi vorrà potrà salire sul treno avendo garantito il ritorno in serata. L’esecuzione musicale potrà essere continua o intermittente. Potrà avvenire durante il viaggio e durante le soste nelle stazioni, per le quali si possono pensare programmi particolari. L’amplificazione e il riporto del suono potrà avvenire anche dal treno verso l’esterno, a beneficio di chi voglia ascoltare senza entrare, e del resto può prevedersi l’uscita di esecutori dal treno per agire all’aperto o in locali della stazione. L’effettuabilità di tutto questo è stata già controllata con i responsabili delle Ferrovie dello Stato. Cage stesso ha compiuto percorsi sui treni per studiare i suoni dei treni e delle rotaie da queste parti. Tutta la manifestazione, di cui non sono ancora noti I dettagli, sarà diretta, cioè immaginata e predisposta da John Cage.

Ultima domanda: come definirebbe nel complesso la sua esperienza?
Io non so ancora che cosa sia la mia esperienza. Sto ancora e sempre sperimentando. Sono vivo, la sperimentazione è vita, momento per momento.

Per Cage, senza intellettualismi, il futuro della musica è ancora quello di quaranta anni fa: credo.

Milano: vivace happening musicale
Il pubblico strepita, John Cage ringrazia

(di Carla Curina, La Stampa, sabato, 3 dicembre 1977. Dall’archivio online www.archiviolastampa.it)
John Cage, 65 anni, il santone della musica di avanguardia americana, ha suonato ieri sera al Lirico di Milano ininterrottamente per due ore e mezzo mentre i giovanissimi spettatori lo bombardavano di cuscini, lo bersagliavano con gli oggetti più strani, tende, legni, specchi, sacchetti di plastica pieni d’acqua, lo deridevano, chiamandolo hippy in menopausa, lo insultavano: Basta scherzare comincia a suonare. Tutti cantavano in coro Scemo, scemo, invadendo continuamente il palcoscenico malmenandolo, spingendolo, arrivando quasi allo scontro fisico.

Manifesto Per gli Uccelli e Empty WordsIl pamphlet che annunciava l’uscita del libro Per gli uccelli e il concerto Empty Words

Alla fine dello spettacolo John Cage ha però ringraziato il tumultuoso pubblico per la sana vivacità, per la creatività e per avere contestato con tanta foga la sua musica basata su suoni amorfi, asettici, monocordi accompagnati da stimoli visivi: diapositive che rappresentano figure scheletriche, segni arcaici, animali preistorici. Il mio fine infatti — ci dice John Cage — è quello di provocare il pubblico, di creargli dei problemi, di farlo vivere. E questa sera ci sono riuscito.

È sincero il musicista americano, l’unico a mantenere il sangue freddo mentre i ragazzi rompevano le sedie, scardinavano le porte del teatro, buttavano sul palcoscenico petardi e fiammiferi accesi? Non ha avuto nemmeno un momento di panico? Sono molto vecchio e quindi non ho più tempo per avere paura ci ha detto Cage spiegandoci di avere partecipato con gioia alla serata del Lirico. Un happening fantastico in cui gli spettatori sono diventati i veri protagonisti introducendo, sollecitati dai miei stimoli musicali, la realtà piena di violenza e di contraddizioni che ci circonda.

Ma chi è John Cage? Quanti tra i 2500 ragazzi che affollavano ieri sera il Lirico conoscono questo rivoluzionario permanente, inventore delle forme variabili e polivalenti, dell’impiego di strumenti per la produzione di suoni inediti, come pezzi di vetro, pigne di cactus, scatole di latta ed il famoso pianoforte preparato mediante l’inserzione di vari materiali metallici fra le corde dello strumento il cui suono diventa tenue e di breve durata, simile a quello del clavicembalo? Che cosa rappresenta per Cage la musica?

John Cage sul palcoJohn Cage concentrato nella sua performance di Empty Words

Per me — dice Cage — la vita è musica, tanto che nel mio repertorio ho cercato di riprodurre suoni che dal punto di vista musicale erano proibiti o assurdi come il passo della formica che cammina in un prato d’erba. L’atteggiamento che io ho acquisito studiando tra l’altro le culture orientali è quello di considerare la vita di ogni giorno più interessante di ogni forma di rito. Ne prendiamo coscienza quando le nostre intenzioni si abbassano a zero. Allora tutto ad un tratto ci si rende conto che il mondo è magico. Da un punto di vista musicale, c’è una cosa che rende la vita di tutti i giorni molto più affascinante e speciale della vita dei concerti: è la varietà del suono rispetto ad ogni altra cosa.

Certo non è facile penetrare nel mondo di Cage. Non basta gridare come facevano ieri sera i ragazzi milanesi: Stai zitto un momento, parla con noi, facci capire, mentre Cage, barba e capelli grigi, vestito di jeans, immobile, seduto davanti ad un tavolino, mormorava al microfono lente parole, senza scomporsi come non si era scomposto nel 1959 quando durante una trasmissione di Lascia o raddoppia?, alla quale aveva partecipato come esperto in funghi, Mike Bongiorno gli aveva detto: Mi spiace che lei ci lasci. Me ne vado, ma spero che rimanga la mia opera aveva risposto Cage terminando di eseguire una sua composizione. E subito Mike aveva ribattuto: Peccato, avrei preferito che lei restasse e se ne andassero i suoi suoni.

John Cage ha giocato da solo il suo concerto

(di Duilio Courir, Corriere della Sera, domenica, 4 dicembre 1977)
L’incontro di John Cage con il pubblico milanese è caduto dal cielo come un dono inatteso, senza preavvisi, programmi prefissati. È arrivato alla Malpensa due giorni fa da New York, si è recato a Bologna per un progetto di lavoro da attuare quest’estate, ha tenuto ua conferenza stampa e l’altra sera, per iniziativa del Canale 96 e del Consorzio Comunicazione Sonora, si è presentato al Teatro Lirico gremito di giovani giunti all’appuntamento con le più diverse disposizioni, ma soprattuto pronti a cercare una musica che, come disse una volta Frederic Rzewski, chiunque possa capire senza preparazione, una musica basata sull’idea di gioco.

La serara è iniziata con una breve presentazione da parte di un organizzatore che invece di spiegare le difficoltà enormi e con ogni probabilità insuperabili di un siffatto approccio alla musica cageana come a qualsiasi musica che presuppone la conoscenza e l’informazione anche minima di un linguaggio, ha preferito ripetere l’argomento risonante di alternative culturali valide e la richiesta al Comune di un fondo che consenta concretamente l’organizzazione di queste prosposte.

John Cage si è presentato subito dopo sul palcoscenico accolto da un appaluso caloroso. Sulla scena era stato approntato l’essenziale per il suo recital: a destra un tavolino con appoggiati sopra un microfono e una lampada, al centro uno schermo sul quale si dovevano proiettare diapositive. La sala è piombata nel buio. John Cage si è seduto, ha inforcato gli occhiali e ha iniziato a leggere al microfono. Il programma prevedeva la lettura per due ore e mezzo, come era stato annunciato, di Empty Words (parole vuote), opera recentissima del compositore americano. Quest’opera, scritta frantumando il Journal di Henry David Thoreau in un materiale che viene riplasmato per mezzo di operazioni casuali derivate dall’I-Ching, lascia poche speranze di essere compresa a chi non si abbandona al flusso estatico e affascinante del discorso musicale. È un’oscillazione appena percettibile della parola a stabilire l’incantesimo musicale, a far emergere certe consonanti e certi fonemi che assumono una forza di suggestione secondo le regole operative dell’I-Ching, libro oracolare cinese, che offre un’interpretazione della musica compenetrata di vita, dove l’arte – come ha detto lo stesso Cage – è vista come la luce che risplende sulla montagna, penetrando in certa misura nelle tenebre circostanti.

Tutto ciò è ricevibile evidentemente in un silenzio concentratissimo, un silenzio che al Lirico non è durato più di qualche decina di minuti. Forse anche senza conoscere e anche senza violare le regole generali del gioco di Cage, una parte del pubblico ha incominciato a creare un imprevedibile contrappunto alla lettura cageana che aveva il solo difetto d’essere tremendamente povero di fantasia e di rispondere alla ricchezza interiore del compositore americano, mai sentito così essenziale, così sottilmente e intensamente persuasivo, con desertiche reazioni. Prima sono cominciate le interruzioni con una fioritura di battute che si coloravano a seconda dei punti di vista dai quali partivano. C’è chi intonava Va’ pensiero, chi tentava la strada goliardica di Mamma, mormora la piccina, chi rispondeva al sortilegio cageano intonando versetti della liturgia. Qualcuno invocava ironicamente Betty Curtis, Arigliano o diceva altra consimili piacevolezze. Qualcuno ha poi cominciato a lanciare nella sala l’idea che si trattasse di un falso Cage e che sarebbe stato ora che gli organizzatori tirassero fuori quello vero.

Cage stretto al suo tavolino e al suo microfono sembrava una figura irreale, ma fermissima, contro la quale si spezzava per incanto la corrente di parole, di slogan, di canzoncine, felice senza accorgersi delle ventate che sommuovevano l’ambiente.

Dopo un’ora circa, qualcuno ha cominciato a salire sul palco ed è scoccata qualche scintilla più ravvicinata per vedere fino a che punto questo cultore della filosofia Zen era in grado d’essere coerente con se stesso. Così hanno inziato a bergli l’acqua del bicchiere ripetutamente quasi si trattasse di una fontana, a imbracciare il microfono di sala per pronunciare brandelli di discorso, ad inscenare davanti a lui delle mosse mimiche. L’ondata era crescente: un gruppo lo ha circondato e lentamente ha tentato di rompere la magia del discorso cageano divenuto finissimo, spegnendo la luce del tavolino, togliendogli gli occhiali, avvolgendolo con una sciarpa. Cage è rimasto del tutto impassibile, si è districato quasi senza un gesto da tutto quello che lo circondava e che gli impediva di continuare il suo intervento compositivo. È durato in questa maniera per due ore e mezzo, quanto era stato annunciato all’inizio esattamente. Poi si è alzato, ha attraversato il gruppo che si era stretto intorno a lui, si è presentato nella sala, ha ringraziato con un leggero inchino ed è uscito lentamente con una sovrana mitezza.

La mitezza quasi sovraumana è la carta che ha dominato questa straordinaria esperienza milanese di Cage, un profeta ed un musicista più grande di quanto i suoi stessi ammiratori più convinti fossero in grado di immaginare. A chi gli chiedeva il giorno dopo un giudizio sulla serata, egli rispondeva sorridendo che tuto gli era sembrato lieve ed irrilevante, un giuoco che non richiedeva commenti.

Gazzarra per John Cage al Lirico
Vogliamo Betty Curtis! Viva Verdi! Pubblico in tumulto per l’intero concerto del santone dell’avanguardia

(di Arrigo Polillo, Il Giorno, domenica, 4 dicembre 1977)
Due ora e mezzo di indescrivibile gazzarra, ed altrettante di noia mortale per chi, ignorando il pittoresco spettacolo dato dal pubblico in tumulto, tentava di seguire quello che John Cage, con commovente perseveranza, cercava di presentare dal palcoscenico del Lirico, l’altra sera.

E sì che la serata era cominciata sotto i migliori auspici. Attirata dal carattere dichiaratamente alternativo dello spettacolo, una gran folla di giovani aveva risposto all’appello dei suoi organizzatori, e cioè di Radio Canale 96 e del Consorzio di Comunicazione Sonora (che è poi l’etichetta discografica Cramps, specializzata appunto in musiche progressive di ogni genere) riempendo fino all’orlo il teatro. Era più o meno, il pubblico delle assemblee studentesche, delle manifestazioni in piazza e, perché no, dei concerti di musica pop: un pubblico, dunque, ansioso di assistere a un rito dissacratorio quale quello che la presenza del gran maestro dell’avanguardia musicale americana garantiva, un pubblico fin dal principio d’accordo sul fatto che si dovessero contestare le istituzioni, a costo di ridicolizzarle, un pubblico insomma aperto a qualunque messaggio rivoluzionario. Per questo Cage era ottimista: il presentatore del concerto (ma di concerto non è proprio il caso di parlare), che gli aveva steso dinanzi un ideale tappeto rosso intessuto di frasi fatte sinistrese, lo aveva detto: Cage era lietissimo di confrontarsi per una volta con una realtà di base, di portare la sua proposta alternativa a chi tali proposte ritiene indilazionabili.

Non è proprio andata come lui sperava, e non già perché il messaggio alternativo sia stato di ardua comprensione o troppo audace: semplicemente perché non c’era alcun messaggio, e perché il casalingo spettacolino che Cage aveva ideato era quanto di più noioso si potesse immaginare. E la rivoluzione può essere tutto fuorché noiosa.

Ecco dunque che cosa John Cage aveva pensato di fare. Si era seduto a un tavolinetto con proiettore incorporato, ed aveva cominciato a proiettare sul fondale del palcoscenico degli elementari disegnini astratti in bianco e nero (sembrava una parata di oggetti misteriosi proposti da un non dimenticato quiz televisivo). Durante la proiezione borbottava parole senza senso (forse magiche, forse no: come i disegnini del resto), interrotte da tenui barriti, da singulti, da isolati latrati, che venivano invariabilmente accolti da applausi, forse perché varietas delectat. Di musica non c’era neppur l’ombra.

Si è andati avanti così per due ore e mezzo filate, durante le quali il pubblico, che dopo pochi minuti aveva perso la pazienza, ne ha fatto di tutti i colori, invadendo alla fine il palcoscenico, senza però saper bene che cosa fare una volta arrivato lassù.

Si sono sentite grida d’ogni genere: Viva Verdi!, Vogliamo Betty Curtis!, Borghese! Non accettiamo provocazioni! Non è mancato chi voleva razionalizzare la situazione ammonendo il pubblico che con tutte quelle proteste si dava ragione al pubblico borghese che contesta la funzione delle avanguardie. Con almeno un centinaio di ragazzi intorno a lui, che lo guardavano quasi fosse uno strano animale e che gli mancavano di rispetto in ogni modo possibile (uno ha bevuto il suo bicchere d’acqua, un altro gli ha spento la lampadina sul tavolo, altri facevano scoppiare dei petardi vicino ai piedi), Cage ha tirato avanti stoicamente sino alla fine, dopo di che è stato salutato da un fragoroso e derisorio applauso del pubblico rimasto in teatro che non aspettava di meglio che un po’ di silenzio. Cage allora ha fatto finta di credere all’applauso e si è presentato alla ribalta con un sorriso raggiante.

Arte incompresa, oppure mistificazione mascherata? John Cage vi risponderà che simili linee divisorie non hanno senso, che sono state tracciate da chi manovra le istituzioni. In un modo o nell’altro vince sempre lui.

Cage imperturbabile nella tempesta
Desolante gazzarra contro la performance di Milano, l’informe materiale musicale di Empty Words, equivoci e disinformazione

(di Paolo Petazzi, l’Unità, domenica, 4 dicembre 1977)
L’impressione più rilevante che resta uscendo dalla serata di Cage al Teatro Lirico riguarda l’identità di comportamento tra un parte del pubblico giovane cosiddetto di base, raccolto tra Canale 96, e i settori più retrivi del pubblico delle prime alla Scala: coincide perfettamente lo scatenarsi dell’intolleranza nei confronti del diverso (o quanto meno dal diverso da ciò che ci si attendeva). Credo proprio che l’indignazione borghese di fronte ai dadaisti, più di cinquanta anni fa, fosse assai simile: non è una constatazione (quasi) consolante.

Che cosa è accaduto al Lirico? Cage ha cominciato alle 21.30 e ha finito a mezzanotte, proseguendo impassibile la propria performance senza interruzione: eseguiva la terza parte di Empty Words (parole vuote), leggendo seduto a un tavolino, a voce bassa, con molta lentezza, alternando pause di diversa durata (anche lunghi silenzi) a parole per lo più deformate e comunque private di senso, proposte solo come suoni.

La povertà del materiale musicale offerto e il modo assolutamente disarmato di porgerlo hanno sconcertato e irritato, suscitando reazioni che, iniziate già dopo dieci minuti con applausi ironici, si sono fatte più intense, continue e soverchianti dopo mezz’ora e hanno raggiunto in culmine preoccupante dopo un’ora e mezzo, quando il palcoscenico è stato invaso e a Cage è stato fatto tutto ciò che che si poteva senza giungere al pestaggio: gli sono stati tolti gli occhiali, gli è stata bevuta l’acqua, gli è stata spenta la luce.

Poi la sua disarmata impassibilità ha prevalso, determinando un calo della tensione, pur sempre in mezzo ad una grande confusione. Quando a mezzanotte Cage ha concluso, si è presentato in proscenio con un gesto cordialissimo di saluto, ha ricevuto un applauso ed è scomparso.

Chi conosce la poetica di Cage sa che sue performances danno per scontata una possibile partecipazione e reazione dei presenti, e sono disposte in ogni modo a inglobarla: abbiamo saputo infatti che egli era assolutamente sereno e felice dopo il concerto. Non per questo ci sembra meno desolante la reazione della parte più agitata del pubblico, una reazione di qualità inventiva modestissima o nulla, con be scarsi barlumi di ironia, con larga prevalenza di ovvii slogan, idiozie, petardi: una esplosione, insomma, di intolleranza pura e semplice, anche se circoscritta ad alcuni gruppi.

E non ci conforta sapere che alcuni si aspettavano qualcosa di simile a un concerto rock, che molti di coloro che riempivano il Lirico erano stati attirati da un semplice nome, dietro cui non sapevano cosa stesse. Anche il modo in cui Cage è stato presentato da un esponente di Canale 96 favoriva l’equivoco e l’ignoranza: la stessa ignoranza che in una città come Milano ancora povera di informazioni sui fatti musicali contemporanei, ha fatto collocare una serata di Cage in inopportuna coincidenza con un concerto dedicato a Webern e a Ligeti.

Tutti insieme appassionatamente

(di Enzo Beacco, la Repubblica, lunedì, 5 dicembre 1977)
Le proteste e gli schiamazzi sono cominciati quasi subito, non appena gli oltre duemila, forse tremila stipati al Teatro Lirico (quasi tutti giovanissimi, rappresentativi di quell’area che va dalla nuova sinistra fino all’autonomia) si sono resi conto che fino al termine la musica non sarebbe cambiata e che John Cage avrebbe continuato a sillabare le sue Parole Vuote senza toccare alcuno strumento. Dai suonaci qualcosa, un piffero, un fischietto, batti un colpo è stato uno degli inviti più moderati fra i tanti che si sono sentiti. Altri non sono difficili da immaginare.

Ci sono state invettive per tutti: per la stampa che ha propagato senza informare; per gli organizzatori (l’emittente della nuova sinistra Canale 96 e il Consorzio di Comunicazione Sonora) che hanno fatto passare per concerto un faticoso esercizio di pronuncia, imponendo anche un prezzo (2500 lire) ritenuto esoso; e naturalmente per Cage, ridiventato, dopo mezz’ora, unico bersaglio.

Il baccano allora si è stabilizzato su una fascia sonora densa e brulicante, rotta di tanto in tanto da momenti più esplicitamente significativi o di più perentoria gestualità: cori alternativi, battimani ritmici, fischi, lancio di oggetti, di liquidi, di pezzettini di carta, invasione quasi pacifica del palco, tentativi di interruzione, improvvisazione di danze e figure rituali. La platea era diventata insomma quella poderosa fonte di eventi musicali che la plumbea e metodica lettura di Cage voleva stimolare. Sono più di trent’anni che il nostro conosce l’arte di provocare, ha molta esperienza e diabolica perseveranza.

Milano. John Cage venti anni dopo

(il Manifesto, mercoledì, 7 dicembre 1977)
Dopo vent’anni Cage ci ripropone la sua musica; questa volta senza strumenti musicali, ma col mezzo più naturale e totale, la persona umana. Uno due tre tanti Cage sono seduti a quel tavolino pallidamente illuminato che sa tanto di laboratorio; uno due tre tanti Cage siedono in poltrona, si alzano, invadono il palcoscenico, vanno ad importunare lo spettro di Amleto che si aggira tra le fila scontente, felice di aver rigenerato la finzione dei pagliacci.

La musica di Cage mette in imbarazzo le orecchie dei bensenzienti; il teatro della crudeltà si rinnova ogni volta allo scatto di rarefatti disegni neri su schermo bianco, al ritmo cadenzato delle pause, al suono incestuoso di corde vocali vibrate con castigata parsimonia. Lo spettacolo è totale nel farsi e disfarsi di una scena poco accorta ai sensi unici e alle significazioni dirette; don Chisciotte è scontento e continua ad accanirsi contro lo specchio che gli restituisce la propria immagine irrisolta. Cage, attore d’altri tempi, recita indifferente a presenze tanto innocue, attento a scandire la sua recita secondo una programmazione rigorosa, che non si concede spazi improvvisati, ma che, se mai, gli spazi li apre all’istinto del fruitore.

Purtroppo l’uso che ne è stato fatto non è stato propriamente creativo, visto che si è limitato al lancio di petardi, di gavettoni, di carta igenica (qualcuno ha osservato che il rosa della carta era l’unico fatto positivo), di banali imprecazioni, di imbarazzati ammiccamenti. Segni di una preoccupante fisionomia culturale che incide il movimento o una parte di esso (autonomia?).

Ma nessuno se ne è andato, quasi che un misterioso impedimento trattenesse in quella sede, proprio come nella villa dell’Angelo Sterminatore. Il sorriso di Cage a braccia alzate, la scomposizione della maschera imperterrita fino a quel momento, ci si aspettava una mesta uscita, mai così entusiasta, ha rotto l’incantesimo.

Cambiare musica

(da Lettere e opinioni, il Manifesto, martedì, 13 dicembre 1977)
Leggo sul Manifesto di oggi 8/12, a pag. 5, un articoletto anonimo: credo di capire che si tratti della recensione di un concerto o di un concerto-spettacolo, John Cage a Milano. Comincia con un grottesco Cage che ripropone la sua musica col mezzo più naturale e totale, la persona umana (che fa la persona umana e totale, quanto a suoni, oltre che parlare e cantare? Meglio non pensarci); e poi continua parlando di due tre tanti Cage che vanno a importunare lo spettro di Amleto che si aggira tra le fila scontente, felice di aver rigenerato la finzione dei pagliacci; di suono incestuoso di corde vocali vibrate con castigata parsimonia, di spettacolo totale nel farsi e disfarsi di una scena poco accorta ai sensi unici e alle significazioni dirette, e via farneticando. Si parla anche di carta igienica e di petardi e di gavettoni (che vorrei meglio lanciarli sul recensore che sul musicista) e alla fine si arriva all’incompresibilità assoluta: il sorriso di Cage a braccia alzate, la scomposizione della maschera imperterrita fino a quel momento, ci si aspettava una mesta uscita, mai così entusiasta, ha rotto l’incantesimo. Un refuso, al solito, evidentemente: ma se non ci fosse stato non avrebbe cambiato in meglio granché.

Prima dell’articoletto su Cage, avevo letto la recensione di Giampiero Cane della prova generale del Don Carlos, e di quella avrei voluto scrivere, chiedendomi se – dati i rimproveri sacrosanti che muoviamo a l’Unità che riflette puntualmente il qualunquismo culturale del Pci – non dovremmo, per coerenza, sforzarci di dare un taglio diverso alla nostra critica, legando ogni episodio singolo appunto come episodio della politica culturale di enti come il Teatro alla Scala – in generale – della borghesia milanese; invece di lasciarci prendere dalla logica del caso per caso che non ci consente una lettura complessiva della realtà e riduce anche la nostra critica, come già l’altrui, ad un’esercitazione mondana, inutilmente – quando tutto va bene – intelligente. Poi ho letto il pezzo su Cage con rabbia crescente; eppure non voglio credere che evocare il necessario salto di qualità nella nostra critica sia un lusso impossibile dato il nostro livello: questo equivarrebbe a condannare il Manifesto ad un ruolo inferiore a quello che gli spetta e che spesso merita.

Bisogna sparare sul recensore, senza pietà; a salve – magari, anche se con fracasso – quando si tratta di Giampiero Cane e invece con tanto di piombo mortale quando si tratta dell’anonimo recensore di Cage. E proporci seriamente un compito di analisi complessiva che – oltre tutto – nessun altro sa o vuole adempiere per esempio, quanto alla musica nuova, riprendere il discorso fondato e persuasivo, che avevamo abbozzato qualche tempo fa, partendo da Luigi Nono e dal suo ruolo di epigono; e con lo stesso taglio parlare dell’uso della musica, che nuova non è, e delle manifestazioni culturali in genere. Per essere il giornale che tutti vogliamo, meno di tanto non basta e non serve.

Il concerto di John Cage al Lirico di Milano ha rappresentato un grosso momento di confronto e di verifica per la musica attuale di avanguardia
Cage: insultato, amato, sbeffeggiato, incompreso

(da Il Quotidiano dei Lavoratori, dicembre 1977)
Domenica sera. 4 giorni di distanza dalla faccenda del Lirico, la cosa strana Cage (provo per la terza volta a raccontarla) ch’è successa al Lirico il giorno 2, lo stesso giorno dei metalmeccanici a Roma e dei compagni in gabbia sempre a Roma all’università.

Fior di pubblico al Lirico dunque; borghesia e sinistra scelta e non, young generation e sani culturi-intenditori dell’avanguardia. Teatro pieno ma non stipatissimo, sfondamento indolore degli ultimi e discorsetto bonario di Canale 96: Il prezzo è alto (2500 lire), ma chi si deve organizzare si organizzi e vada a rompere i coglioni al comune che si fa pagare così caro.

Il palco è vuoto: schermo bianco sullo sfondo, un tavolo di legno con una lampada da geometra, un bicchier d’acqua e un microfono; dietro una tenda s’intravede l’impianto di registrazione.

Insospettiva: una mia amica ieri mi diceva che pensava fosse il tavolo del suggeritore; insospettiva che non ci fosse neanche lo straccio di uno strumento; neanche una chitarra, qualche aggeggio… l’unica cosa suonabile è il bicchier d’acqua. E allora bisogna ricordare: il battage giornalistico con cui è stato presentato Cage. Ma come c’è Cage stasera a Milano, Cage jazzista d’avanguardia rivoluzionario di quelli veri. Dietro dicono che nell’ultimo disco non c’è una nota però chi è qui pensa che i suoni, almeno i barattolini o lo scacciapensieri: pensano che suoni.

Il pubblico è pregato di non fumare; partono gli spinelli sui palchi; inizia la prima parte del concerto; ingresso di Cage, bell’inchino secco e si siede davanti al tavolo; porta la bocca vicino al microfono e apre dei fogliettini davanti a sé sul tavolo, poi un po’ leggendo, un po’ no inizia a parolattare cadenzato e incomprensibile; parole incomprensibili, lettere disarticolate, a un certo punto ha detto Pound. Ne sono certo. Sullo schermo diapositive paleocristiane, una specie di rastrello da erba, un paleopesce e le parole disarticolate con cadenza e voce profonda.

Magari Pound c’entra però… dieci minuti e inizia la tosse in platea… Cage continua a biasciare; poi i primi commenti ad alta voce: Datece Orietta Bberti! e i rispettivi rimbrotti colti Taci scemo. Cage non alza neanche il tono e avanti così scemo, petardi, tondini di ferro, tutti in piedi, Fratelli d’Italia, una bottiglia d’acqua dal palco, un palco sfasciato, salgono sul palco a spengnerli la luce, versato il bicchere d’acqua sui fogliettini.

C’è una donna vicino a me che ride dall’inizio, potrebbe essere per le frasi colte del tipo Ma se non gli piace perché non se ne vanno? Ma non lo sanno che New York è rimasto per tre ore seduto davanti a un pianoforte a guardare la tastiera suonando in tutto 1 sola dicasi 1 nota!? A Tokio invece ha presentato sul palco un indiano che si è battuto i pugni sul petto e morta lì.

Poteva ridere per le frasi Ridateci li sordi, Autonomia operaia, Assemblea, Stronzo di merda non se ne può più.

Oppure per la stupidità di chi se la prendeva tanto con un vecchietto solo e sconosciuto solo perché sta in mezzo al palco. Per la stupidità di un’avanguardia jazzistica che viene a fare il vecchietto solo e sconosciuto e se ne sta solo in mezzo al palco a biasciare parole di fronte a chi ha fatto scappare dopo tre minuti Santana, Lolli, De Gregori e altri.
Oppure: per la strana dialettica odio-amore tra Cage e il pubblico; comunque rideva e Cage prima di mezzanotte; anzi a mezzanotte in punto si alza, saluta papale e se ne va.

Risultati sicuri: un palco rotto che bisogna rifondare; il concerto è finito all’ora prevista non un un minuto prima; non è successo l’ultimo fatto che poteva spezzare l’incanto-subordinazione divo-pubblico e il divo è rimasto nonostante tutto e fino alla fine, la controparte di un sacco di gente che avrebbe potuto fare e dire cose più interessanti e più belle che biasciare incompreso.

La provocazione è stata raccolta, accettando una logica di subordinazione. Abbiamo pagato tutti o quasi 2500 lire.


Sabato pomeriggio un ascoltatore aveva telefonato a Canale 96, la radio che aveva organizzato il concerto di John Cage, dicendo che aveva posto un grosso problema al Movimento: scegliere tra la sopravvivenza e la vita.
Nel grande casino che è successo venerdì sera al Lirico sicuramente la scelta è stata fatta: non ancora completa, non ancora profonda, ma sicurmanete la maggior parte della gente ha scelto di lavorare per la vita.

Non voglio assolutamente dare un giudizio di valore di quella serata, in cui non solo Cage ha fatto musica, voglio solo raccontarvi le mie sensazioni, le mie opinioni.

L’impatto con Cage è stato doloroso, violento, massacrante.

Due ore e mezza pesanti – alcuni le hanno definite una grande seduta psicanalitica – in alcuni sono saltate fuori tutte le nostre paranoie, la nostra rabbia, la nostra crisi: una sera in cui i nostri schemi di giudizio, i nostri parametri di valore sono stati messi in discussione.

Il pubblico e Cage hanno distrutto il rito dello spettacolo, un rito che era saldamente radicato nelle nostre coscienze, un rito che ci vede ogni volta entrare in sala o seduti su un prato, o sdraiati di fronte al mangiadischi – sederci o aspettare che le note escano dagli strumenti, che il ritmo ci prenda, ci faccia sognare o vivere con rabbia una canzone. Un rito che prevede alcune varianti, cioè alla gente si concede la libertà di battere le mani o cantare la strofa insieme, ma il tutto come parte del rito.

Le parole vuote di Cage sono state riempite dalle urla, dai fischi, dai gesti della gente, sono state riempite anche dalla grande personalità di Cage, che in mezzo a quella grande bagarre è sembrato granitico (Incoscenza? Lucida follia? Presa per il culo? Acuto calcolo? O gioia profonda perché le parole vuote venivano prese, esaminate, ributtate a lui dalla gente?) finché alla fine è entrato anche fisicamente, col corpo, nel grande gioco doloroso, accolto da un boato di rabbia, ammirazione, ironia, sospiro di sollievo perché il tutto era finalmente terminato.

Alcuni compagni mi facevano notare come – nonostante il grosso dissenso o disagio – la maggior parte della gente sia rimasta fino alla fine. Altri facevano notare come il fronte anti-Cage non sia mai riuscito a compattarsi per bloccarlo.

Compagni! Se andiamo avanti col casino dimostriamo che Cage ha ragione! Se stiamo zitti vinciamo noi! Se urliamo vince lui. Questa una delle tante frasi che i compagni saliti sul palco urlano in un microfono di servizio.

Compagni, noi ci incazziamo con Cage perché ci sta dimostrando quanto noi siamo in merda, quanto la nostra creatività non esista. Così urlava un altro compagno dal palco.

Venerdì sera abbiamo distrutto un rito, ma per distruggerlo abbiamo dovuto costruirlo. Scegliendo di andare a sentire Cage, sedendoci sulla poltrona ed aspettare da lui della musica.

Se il vecchietto facesse un po’ de musica, non diversa, ma basta che siano note, questi se calmano. così diceva un lavoratore del TG2 dietro alle quinte.

Vogliamo i Rolling Stones urlava qualcuno dalla balconata, dimostrando quanto ci sia ancora necessaria la tranquillità delle cose scontate, conosciute ma mai comprese; le cose che ci danno sempre la sicurezza, la piccola isola felice fatta di rock, su cui crediamo di cambiare il mondo. Ma quando l’abbandoneremo per entrare fino in fondo nella vita, lasciando la sopravvivenza?

L’unica cosa che è mancata al Lirico era uno striscione all’entrata che avvertisse: Abbandonate ogni certezza o voi che entrate.

Una nota a parte dedicata agli imbecilli: il gruppazzo di cretini che si è creativizzato nel distruggere sedie, porte e tende, nel lanciare petardi sulla gente o sacchi d’acqua sul palco (facendo correre il rischio di friggere il centinaio di compagni sul palco) sono stati gli sconfitti della sera: incazzati perché il rito non è stato rispettato, eterni bisognosi di sacerdoti dispensatori di certezze, hanno scelto la sopravvivenza, hanno scelto lo status quo.

 

 

http://www.johncage.it

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