Prima band per computer collegati in rete, la League Of Automatic Music Composers ha forgiato un esperimento spartiacque per il genere e rivoluzionario (sebbene passato completamente inosservato) per la musica intera. Un esperimento che nasce tra i fermenti californiani degli anni 70, da un gruppo di colleghi e amici, uniti dalla passione per la musica e per la tecnologia.
John Bischoff nacque nel 1949 a San Francisco dal padre Elmer, pittore. Dopo aver ottenuto la laurea in Fine Arts al California Institute of the Arts nel 1971, e il master sempre in Fine Arts all’Oakland’s Mills College nel 1973, studiò composizione sotto la supervisione di Tenney, Robert Moran e Robert Ashley, già trio di autori dell’avanguardia californiana. Nel 1978 decise di fondare, di comune accordo con i suoi colleghi e amici Jim Horton, Tim Perkis, David Behrman (autore del noto, per il genere, “On The Other Ocean”, del 1977), Paul DeMarinis e Rich Gold, un ensemble di computer music, con l’intento dichiarato nel nome (“League Of Automatic Music Composers”) di creare una musica improvvisata per strumenti elettronici e informatici, tape recording, mixer e ogni sorta di microcomputer.
Le performance erano rigorosamente live, ma nei fatti erano concerti sui generis, consistenti, durante la prima parte, nella costituzione del network (rete) dei calcolatori, in forma di circoscritta ma concentratissima LAN (una foto del manuale ritrae gli “eroi” Perkis, Horton e Bischoff ai capi di un tavolo da cucina coperto da una ventina dei loro ingegnosi macchinari); nella seconda parte, suonavano, dedicandosi ognuno a cinque strumentazioni circa, improvvisando, originando una musica sempre imprevedibile, al di là però (questa è la rivoluzione) della volontà del singolo “musicista”, perché il suono nasce dall’interazione complessissima dei membri, talmente complessa da risultare imprevedbile, mai totalmente e costantemente controllabile e, dunque, casuale: è l’incarnazione in musica della teoria del sistema complesso, cioè un sistema talmente ramificato da risultare praticamente infinito nelle sue possibilità di relazioni e, quindi, di suono percepito.
Oltre a questo bisogna considerare che l’improvvisatore in questo caso non ragiona e non agisce secondo regole musicali tipiche di uno strumento e inoltre gli strumenti tradizionali non sono legati l’uno all’altro da un network, situazione che, pur premeditata nei collegamenti (cioè nel chi manda il segnale a chi), permette un output del suono che è il risultato di numerose ramificazioni e influenze reciproche tra i vari software e chip. Partendo cioè da una rete “premeditata”, automatica, esce un suono che è proprio la negazione dell’automaticità (è l’ossimoro dell’algoritmo matematico che genera il caos puro): le macchine sono automatiche, ma non è automatica (o premeditata) la volontà di chi le comanda, che non può tenere conto delle infinite variabili al secondo scaturite dalle manipolazione alle tastiere e ai mixer e di tutte le possibili interazioni tra gli algoritmi. Quattro musicisti variano al secondo per innumerevoli volte i valori dei parametri delle equazioni che legano i chip e, quindi, la rete.
E’ un cambiamento radicale nel modo di fare musica, di comporre suoni e di creare opere d’arte sonore: l’avanguardia nell’avanguardia, la rivoluzione copernicana compiuta nel genere che, già di per sé, si propone lo scopo di rivoluzionare: è una nuova forma musicale, innovativa soprattutto dal vivo, comunque stupefacente su copia riprodotta. In confronto il free-jazz, che condivide con la League l’improvvisazione totale, risulta limitato, poiché nella esecuzione free-jazz ogni membro percorre la propria strada, rimanendo comunque minimamente influenzato dai colleghi all’atto dell’esecuzione della propria partitura, vuoi perché sentire gli altri strumenti è inevitabile, vuoi perché nell’essere umano c’è sempre un tentativo di ricreare qualcosa di anche solo vagamente sensato e armonico (in “Free Jazz” di Coleman, per esempio, il motivetto centrale, pur in mezzo all’improvvisazione, è ripetuto nelle stesse modalità più volte, nonostante le pretese di nessun ordine propugnate dal leader). E’ piuttosto normale infatti che in un’improvvisazione free, in certi momenti, gli strumenti eseguano partiture che abbiano una certa simbiosi o attinenza l’una con l’altra. Nella “network computer music” questo non accade pressoché mai, perché chi decide e regola le interazioni e i suoni prodotti sono di fatto i sistemi informatici, le macchine; non solo: chi aziona i sistemi non può prevederne le azioni e reazioni.
I veri protagonisti di questa musica sono gli strumenti stessi, almeno quando il suono prodotto è semplice e unitario, di una sola macchina; quando diventa complesso, il vero artista non sono più le macchine o il tecnico che le aziona, ma è la pura casualità. C’è dell’altro: la musica scaturita trascende cioè da ciò che improvvisa il singolo, ma dipende dall’insieme del lavoro di tutti contemporanemente, che si influenzano a vicenda, alterando l’esecuzione del collega, mediante il network.
Nella improvvisazione free degli altri generi nessun strumento reale ha la capacità di distorcere completamente o mutare radicalmente il suono di un altro strumento: suonano contemporaneamente, senza “distruggersi” e ricrearsi casualmente a vicenda, come invece accade con più sistemi in network.
Per fare capire il sistema complesso congegnato dai Nostri, è opportuno citare il caso di “Blind Lemon”, ottava traccia, fiore all’occhiello della carriera del gruppo, eseguita nel 1978, simbolo di un modo profondamente punk e free di interpretare la musica (per intenderci, due anni dopo l’album d’esordio dei Ramones): punk nell’approccio di rottura nei confronti degli orpelli della tradizione (in questo caso gli orpelli sono i limiti pratici degli strumenti tradizionali, fisicamente limitati rispetto alla frequenza immediata di creazione di una varietà di suoni tipica di mixer e computer da soli, figuriamoci collegati in simultanea). Ecco la descrizione analitica del collegamento multiplo congegnato: il tono e la melodia sono impostati da Horton, da questi vengono dedotti: l’algoritmo per le informazioni del digital tune (tono digitale) rivolte a Gold, il segnale audio, in output che viene rivolto alle macchine controllate da Bischoff e quelle controllate ancora da Gold; il controller degli intervalli armonici e degli accordi dello stesso Bischoff invia un messaggio, riguardante la regolazione di tono, attraverso digitazione di tastiera da computer, a Gold; il software di Bischoff invia inoltre un avviso a Behrman sullo stato degli altri software e delle relative regolazioni; Gold medesimo invia input audio di risposta a Bischoff e a Behrman; quest’ultimo chiude il cerchio, indicando a Horton, sempre attraverso regolazioni digitali, l’altezza o il timbro da impostare.
Ecco, sinteticamente, il commento (tradotto) sul brano incluso nel booklet che chiarisce la prestazione di quella sera: “Behrman aziona un filtro analogico controllato da un computer che, silenziosamente, interagendo con i segnali audio provenienti da Horton e Gold emette battiti e fa vibrare sequenze di accordi in base alla distribuzione di frequenza ricevuta”.
L’effetto artistico è una selva sonora di pulsanti, bip intermittenti che collidono come particelle atomiche in un acceleratore, una miriade di suoni dello stesso timbro, ma di altezza e di tono variabilmente infiniti, uno dei monoliti definitivi della post-modernità, il cyberspazio che si apre finalmente e, soprattutto, fisicamente, all’ascoltatore; evoluzione della musica concreta che da natural-artificiale diviene così solamente artificiale, perfetto sound-simbolo dell’era elettronica e informatizzata.
“Dense Drone”, il brano di apertura, registrato in casa da Perkis, Bischoff e Horton, nel 14 ottobre del 1980, vede il set virtuale di Perkis quale rete composta da nove unità, ognuna delle quali controlla un’espressione sonora (loro la chiamano “voice”, espressione appunto), decidendo quale sarà il suono successivo da emettere in base allo stato degli impianti vicini e in base all’ultima “espressione” di Horton (“state” sul manuale, probabilmente si riferisce al suono emesso dagli impianti dei colleghi e dalle relazioni con loro instauratesi).
Le altezze sono determinate precedentemente entro una gamma precisa di possibilità. Il computer di Horton applica una parte della teoria psicologica della melodia di Max Meyer, usando una scala particolare, differente dall’originale di cui parlava Meyer, avente una tonalità pari esattamente a 29 toni in meno di un’ottava scelta. Il programma di Bischoff, invece, controlla costantemente le armonie formate accidentalmente da Perkis e Horton, segnalandole con un bip o enfatizzandole con ulteriore maggiore decisione attraverso un accordo di accompagnamento. Questa attività è tipica di una delle strategie fondamentali della League: reagire reciprocamente ai suoni prodotti, attraverso comunicazione informatica automatica preimpostata, costituendo una forma di coordinamento tra le composizioni che ogni musicista suona indipendentemente, relazionandole nel contesto del gruppo.
Tutti i suoni hanno andamento ad onda quadra, filtrati e reinterpretati da Perkis mediante analoghi inviluppi, il case di Horton omogenizza i suoni cambiandone leggermente la tonalità, creando una specie di coro formato dei suoni prodotti dagli altri due.
“Martian Folk Music”, del 1980, una dichiarazione esplicita d’intenti sin dal titolo, consiste, come nella maggior parte dei brani composti dalla League, in una composizione che originariamente prevedeva il solo Bischoff, e che è stata successivamente adattata per tutta la Lega.
Bischoff faceva partire il suo pezzo nominato “Audio Wave”, che stabilisce una sintesi tra il proprio segnale audio a 8-bit e il KIM-1, il suo computer system risalente alla fine degli anni 70. La performance originaria prevedeva la pressione attraverso tastiera di codici in base esadecimale, atto che qui viene simulato dalla macchina di Perkis, che riproduce una traccia simile a “Dense Drone”, il cui inviluppo ha però un effetto più percussivo.
Vale la pena descrivere brevemente le caratteristiche di KIM-1: 1152 bytes di RAM, 2048 bytes di ROM, 30 linee di codice input\output. Il KIM-1, costruito nel 1976 dalla Commodore, fu il primo Hub; un Hub è l’elemento centrale di una rete LAN con connessione a stella estesa, dove “a stella” si intende un polo centrale da cui partono più diramazioni, ognuna a sua volta divisa in tre terminali. Di fatto, un Hub riduce la banda totale a una frazione dell’originaria, a causa del moltiplicarsi dei dati inviati, con un ritardo del segnale ininfluente, di pochi millisecondi, rispetto al semplice collegamento di due computer. Il suo scopo è dunque rendere possibile i collegamenti tra un numero virtualmente infinito di terminali.
La League era un esempio di Lan connessa con Hub: due nodi (diramazioni), sei terminali; anche se nella maggior parte dei brani composti i terminali erano solo quattro. In questo contesto ritmico, anche il sistema di Horton, solitamente destinato alla strutturazione di architetture melodiche, suona dei glissando per ognuno delle migliaia di input ricevute al secondo da Bischoff (si consideri che i “computer” di allora erano voluminosi chip della potenza di calcolo di gran lunga inferiore alla macchina che contiene un mouse per pc odierno).
“Finnish Hall”, la terza traccia, del 1979, è composta da un quartetto (Gold, Bischoff, DeMarinis, Horton). Alla truppa si aggiunge appunto anche Paul DeMarinis, che filtra i suoni di Gold e Horton attraverso un gruppo di filtri analogici controllati da una sua macchina. Gold, intanto, aziona il suo “Terrain Reader”, programma per il sistema KIM, in cui un programma, detto “viaggiatore”, legge un ciclo di istruzioni che consentono la riproduzione sonora entro un range di suoni, espresso da una funzione matematica, detta “terreno” (terrain), dove le variazioni di questo terreno definiscono la forma dell’onda sonora riprodotta. Queste variazioni d’onda sono controllate manualmente da Gold, mentre Horton e Bischoff (i due elementi fissi della League, presenti in tutte le composizioni del disco) cambiano a monte la riproduzione, selezionando le linee di codice da eseguire, e quindi infine, il settore, il terrain, che poi modificherà Gold. Bischoff, inoltre, come in “Dense Drone”, agisce regolando i toni con un programma scritto specificatamente per l’uso.
“Oakland One”, registrata in ambiente domestico nel 1980, parte con il setup di base impostato già in “Martian Folk Music”, cui Perkis ha aggiunto precedentemente un’altra voce di analogo timbro, mentre il codice, inviato al set di ogni membro del gruppo, viene configurato per provocare bruschi attacchi e interruzioni, ritardi e ripetizioni delle azioni di ogni artista, definendo una struttura sonora sempre differente e completamente imprevedibile (il termine musica è, in un tale contesto, ormai obsoleto). Un simile effetto eco è applicato al suono prodotto da Horton.
“Radio Air Check” (1981) sta alla musica come il principio di indeterminazione di Heisenberg sta alla ricerca scientifica: la possibilità di controllo viene negata, e questa negazione è fagocitata dall’errore, dal crash che in molti casi l’hardware Phase Lock Loop commette nel cercare di creare armonia con la traccia di Bischoff, a un intervallo di tono impostato dal computer centrale di controllo dello stesso Bischoff; con l’effetto di scorrere a vuoto del Phase al tentativo fallito di individuare il tono della macchina di Bischoff.
“Oakland Three”, altra registrazione casalinga, del 25 maggio ’81, è un nuovo tentativo, sempre altalenante, di localizzare le tonalità della macchina di un collega; questa volta è Horton “l’inseguito”, non Bischoff. “Oakland Four”, registrato lo stesso giorno nello stesso luogo della traccia precedente, è un esempio lampante, a detta degli stessi autori, del misterioso connubio tra i pattern, dove uno prevale sull’altro senza spiegazione apparente; il risultato cioè va oltre le intenzioni dei “giocatori”. A partecipare: la melodia di Horton, con il programma di Perkis che genera inviluppi e invia un segnale codice a 4 bit a Bischoff, Horton che riceve il segnale di Bischoff, cercando di individuare, con un solo bit, la tonalità di Bischoff. Alla fine, Horton riproduce il suo nastro con effetto eco, Bischoff emette il suo segnale audio in base alla chiave in 4 bit di Perkis, che mixa il tutto.
Il risultato è assolutamente incomprensibile e imprevedibile.
“Pedal With Twitter”, realizzato al New College nel marzo ’80, è un vero e proprio live. Le tracce vengono deviate dai clamori esterni del pubblico. Horton suona una lenta linea di basso. “Oakland Two”, è l’ultima traccia, registrata in casa, nell’ottobre ’80. Qui la macchina di Perkis che regola l’orchestra (nel gergo della computer music, orchestra è la traccia melodica e di arrangiamento) suona una scala derivata dal gamelan javanese, tipo di orchestra indonesiana, con le stesse tonalità di “Audio Wave”, la traccia di Bischoff, suonata al KIM-1, già presente in “Martian Folk Music”.
La più vecchia registrazione conosciuta di musica generata da calcolatore viene eseguita sul computer Ferranti Mark I nell’autunno del 1951 durante una sessione registrata dalla Bbc in cui vengono eseguiti alcuni brani famosi, esso fu il primo computer nel mondo in grado di suonare musica digitale. Ronzò la prima musica digitale al mondo,”Colonel Bogey”, durante la prima conferenza dei computer in Australia, nel giugno del 1951, davanti a un pubblico internazionale.
James Tenney fu il primo compositore di computer music, quando, nel 1963, creò “Dialogue”, via di mezzo tra puro rumore e tonalità naturali, e soprattutto, nel 1969, “For Ann”, la prima suite della computer music, con glissando impostati programmaticamente.
I figli di John Cage, coloro che tradussero la sua impostazione nella musica informatica furono proprio i membri della League con 78-83, che però, con la creazione delle prime composizioni in collegamento, andarono oltre. La network computer music imposta dal gruppo è, come scrisse Perkis, una forma “sociale” di computer music, che non si basa sulla previsione controllata e soppesata di ogni singolo suono prodotto e sulla eliminazione di ogni imperfezione commessa dall’uomo, tecnica standard di questo genere, bensì, al contrario, si fonda sulla imprevedibilità delle multiple interazioni contemporanee, sulla esasperazione di quello che dai loro colleghi viene visto come difetto da eliminare: il caso, la mancanza di controllo, il nonsenso, l’istinto. E’ l’espressione musicale che più si avvicina alla teoria dei sistemi complessi di Ilya Prigogine, dal punto di vista estetico e artistico, e alla teoria di indeterminazione di Heisenberg, per quanto riguarda l’approccio tecnico e strumentale. Ciò che rende gli algoritmi calibratori imprevedibili è proprio la cooperazione tra tutti questi algoritmi: sono calcolati i suoni di ogni artista-tecnico del gruppo, ma non è calcolata la complessa interazione reciproca che ne esce fuori: l’effetto sonoro definitivo e, quindi, emotivo di ogni sistema è asservito, di fatto, al rapporto con gli altri sistemi.
John Cage fu aleatorietà pura e semplice, la League, invece, costruzione della casualità, non premeditazione, ma sviluppo della stessa, preparazione degli strumenti per ottenerla, laddove Cage produceva suoni attraverso colpi improvvisi su oggetti quotidiani. Casualità che viene calcolata, costruita nelle sue premesse (i singoli sistemi), e poi “liberata” dalla relazione e dal collegamento.
Il messaggio estetico dell’opera in questione consiste proprio nel concetto di collegamento. E’ il collegamento che consente la creatività, è nel collegamento la genialità di 78-83. Questo è il segreto di cotanta sistematica casualità, imprevedibile precisione; matematica altruista, strumento non atto più alla comprensione di regole, ma spinto alla libertà più anarchica.
Questa rivoluzione copernicana nasce dall’incontro ossimorico, prima d’allora impensabile, tra i due poli opposti della musica informatica e dell’aleatoria e improvvisazione, e ha come unico fine artistico un’affascinante quanto tremenda reinterpretazione dell’apocalisse: è un big-bang che a ogni istante nasce e muore o si sviluppa, come se qualcuno registrasse l’atto di nascita dell’universo e lo riproducesse in loop: surreale, catastrofico, ipercreativo.
1978-1983, con i suoi trii e, talvolta quartetti, atonali per mixer, sequencer e console da videogame, è l’approdo finale della free music, un assalto forsennato e babelico di bip, non necessariamente cacofonico, capace di una foga impareggiabile, che unicamente i Royal Trux di “Twin Infinitives” riusciranno ad avvicinare (attraverso la sovrapposizione barbarica delle tracce sonore, il tape recording, di rumoraccio noise), ma solo nel 1990.
La musica della League è un tipo particolare di forza centrifuga, che, invece di partire per una tangente qualsiasi, scelta casualmente, ne segue, sempre casualmente, infinite diverse; come le molecole impazzite di un gas riscaldato e pressurizzato, ma soprattutto come lapilli di un vulcano in eruzione, che saltano dappertutto senza una direzione precisa; una cascata di dardi aguzzi e infiammati.
Quest’album è interpretabile anche come la forma più radicale antitetica alla cultura cyberpunk: le macchine dominano sulla volontà umana, che, al posto di opporsi, le sollecitamo e le stimolano alla produzione dispersiva e insensata. Questo suono, oltre che aggressivo, isterico e fulmineo nella sua intensità, è anche costante, nella sua quantità, un ammasso di diversa tonalità, che ha come effetto una sottospecie di continuità. E’ così assordante da non far più distinguere i cambiamenti di note, abbracciando quindi anche un lato massimalista (alla LaMonte Young e, negli anni a venire, Rhys Chatham), cioè minimalismo drone che copre l’ascoltatore, così da fargli percepire cambi di tonalità e altezza come fossero leggere variazioni sul tema principale (che invece sono affatto trascurabili), prive di qualsivoglia iato, rendendolo incapace di seguire tutti i risvolti sonori prodotti in contemporanea.
Dopo questa esperienza, le carriere dei singoli componenti si divideranno. Hub, supergruppo formato da Bischoff e Perkis, continuerà il discorso della League, mantenendone i principi, ma nessuna creazione successiva sarà in grado di raggiungere i livelli imposti dalla “Lega”.
League Of Automatic Music Composers
Discografia
1978-1983 (New World Records, 2007)